PAOLINO un scito do belin!
CIASSA DE PONTEXELLO
PIAZZA DI PONTICELLO
(testo Costanzo Carbone, musica Attilio Margutti)

ascolta la versione di
Gino Villa, Lino da Recco, Mario Cappello
ciassaPontexello1ico
tratto da Liguriacards
Questa bella poesia di Costanzo Carbone, per la musica del Margutti, è un acquarello su un posto “magico” della Genova dei tempi belli, in cui hanno vissuto gli autori, la piazza Pontexello centro del sestiere di Portoria dove era collocata la fontana detta "Barchî".
La Canzone è composta di tre parti, indipendenti tra loro per tema e momento temporale, in comune hanno la metrica, irregolare a tratti, e la cornice che è la bella piazza. Ogni parte è formata da una strofa ottava di novenari, in rima alternata, più un distico finale in rima baciata, alla moda dei trovatori, seguita da una quartina di doppi senari, in rima baciata, con la metrica del verso Saturnio, detto anche italico (è l’unico verso nato in Italia) o itifallico (usato nei canti sacri della fertilità), che funge da ritornello per il canto alla moda del Trallalero, anche se la canzone è impostata come monovocale.
Commento
La canzone richiama una poesia del settecento di Steva De Franchi, “Ri sciaratti che sente Madama Parissoea sciù ra ciaçça de Ponticello”, senza esserne un rifacimento. Le due composizioni sono diverse per costruzione poetica, in comune hanno solo l’oggetto. La canzone è un trittico, ogni sua “tavola” è un acquerello che descrive un momento diverso della vita di Piazza Ponticello, racchiuso nella strofa ed il ritornello che segue. Ogni verso è un tocco di pennello che delinea un particolare del contesto della Piazza, senza mai entrare nell’anima dei personaggi, delineati con contorni sfumati, fusi nell’insieme. Costanzo Carbone, a differenza di Mario Cappello, poeta delle sensazioni e delle emozioni, è un poeta del paesaggio, un pittore. La sua canzone è un acquarello di un angolo della città, in cui le persone sono parte del paesaggio e basta. Carbone non entra nei sentimenti di questa umanità, con un colpo di penna, un verso, le descrive molto bene, le rende vive.
La prima parte o “tavola” presenta la Piazza al primo mattino, la seconda in un giorno feriale e la terza alla domenica, giorno di riposo dei lavoratori e di franchigia delle servette.
L’ambientazione è degli anni venti, comunque prima del 1936, anno in cui la piazza “morì” e non solo fisicamente. Infatti non sono spariti solo gli edifici, abbattuti, sono svaniti l’anima ed il tessuto umano di un sestiere di una città di mare, capitale di una gloriosa Repubblica marinara. Quell’umanità fatta da notabili, artigiani, borghesi, marittimi, camalli, servette ed ambulanti, ma anche di gente “non per bene”, che vive di traffici ai margini della legalità, e di chi sbarca il lunario comunque, inventandosi il lavoro, come è possibile solo in una città con un porto efficiente ed un entroterra ricco e laborioso.
Rivediamo la canzone con una traduzione all’impronta per capirla meglio.
La prima parte presenta la Piazza di prima mattina ed inizia con l’invito:
"Andæ in ciassa Pontexéllo se voéi vedde e raritæ, ghe poriéi trovâghe quello che da-i âtri no trovæ" Andate a piazza Ponticello se volete vedere le cose rare, cose che altrove non potreste mai trovare, un ambiente unico, irripetibile, come ogni angolo di una città, ricca di storia, che conserva ancora il suo tessuto umano. E continua: "A-a matin, ghe séi mâi stæti?" Ci siete stati di mattina presto? Vedrete una bella scenetta "Gh'é i leitæ li da-o Barchî, mettan l'ægoa drento a-o læte e de un litro ne fan doî." Ci sono i lattai che vicino al Barchile, la bella fontana tanto cara ai vecchi genovesi, mettono l’acqua nel latte e da un litro ne fan due (all’epoca non era di moda il latte parzialmente scremato, a mantenere la linea ci pensava la fame!). "Pöi ciù tardi gh'é e pesciæe co-i nazelli d'ægoe ciæe." Più tardi ci trovi la pescivendola con i naselli d’acque chiare, forse pescati poco lontano, pescati alla Foce o sugli scogli di Corso Quadrio, alla foce del Rio Torbido, dove oggi si trova il Porticciolo turistico, e dove a fine ottocento, circa 30/40 anni prima della canzone, vi dominava “o scheuggio Campann-a”, dove i pescatori pescavano ed il loro pesce era venduto fresco nei mercatini rionali, quindi anche in Piazza di Ponticello.
Ed ecco il primo “trallalero”: "Ciassa de Pontexéllo a-o centro da çitæ, che ödô de refrescumme, che sbraggi mâducæ!" Piazza di Ponticello al centro della città: che odore di lezzo, che grida scomposte, da villani! "Vin bon, vin bon – tralalêro, tralalêro, Vin bon, vin bon – tralalêro, tralalalà." Vino buono, ...trallalallero trallalalà, è il modo classico per chiudere una strofa di una canzone.
La seconda parte descrive un giorno feriale qualsiasi dell’anno:
"A l'inverno gh'é e rostîe “Ghe e ò câde, gh'émmo e piæ, peri caldi, prebogîe…” Gh'é a patêca inte l'estæ." D’inverno trovi le caldarroste e le grida dei venditori “Ce l'ho calde, le mie pelate - pere calde e castagne secche.” D’estate invece trovate il cocomero a fette sul ghiaccio. In pochi versi ecco i personaggi della piazza e la merce che vendono. Al centro della piazza "Li into mêzo i ciarlatæn gh'àn i pægoi de papê… Se vedesci comme xeuan quande arîva i cantonê!" i ciarlatani, che vendono ombrelli di carta, cioè vendono patacche agli sprovveduti, e spariscono di colpo (volano) se arrivano i vigili urbani! Poi scoppia una rissa "Gh'é 'na lîte? Parte 'n éuggio, te salûo portafeuggio." C’è una lite? Parte un occhio (ti distrai), ti saluto portafoglio.
Ed ecco il secondo “trallalero”: "Ciassa de Pontexéllo  Bedin, co-e teu fainæ, fra torte pasqualinn-e, ti sciorbi di dinæ… un, doî e tréi dæghene tanta, a l’é bonn-a davéi!" Piazza di Ponticello, Bedin con le tue farinate, fra torte pasqualine, te ne succhi di soldi. È la considerazione della gente nel vedere un artigiano incassare i soldi senza pensare ai costi, lavoro e professionalità occorrenti per ottenere un buon prodotto. Mangiando poi la farinata o la Pasqualina, se ne apprezza la bontà, “Daccene tanta che è davvero buona!”. Bedin, Re della farinata, viveva vendendo farinate e torte pasqualine, ma anche la Sbirra (Sbîra piatto tipico di Genova che risale al 1479, in pratica è il brodo ottenuto dalla bollitura della trippa: il suo nome deriva dai suoi abituali consumatori, gli sbirri, cioè le guardie), roba buona davvero, dal sapore di altri tempi! Il ristorante di Bedin è l’unica cosa che ci resta di piazza Ponticello. Ora è in un angolo di Piazza Dante, in un palazzo nuovo, sotto al Seminario, all’imbocco della Galleria Colombo. Tutto il resto è sparito!
La terza parte presenta la domenica, giorno di franchigia delle servette:
"A domenega, adonansa de servette invexendæ:" Alla domenica si radunano le servette creando una gran confusione nella piazza deserta, senza il vocio della gente e dei venditori. Son vestite con eleganza e sono tutte profumate "son vestîe con elegansa, e son tutte profumæ." con gli abiti ed i profumi regalatele dalle Signore di Casa.
E la piazza, nella confusione, facendoci caso, sembra trasformata "Pontexéllo, fæghe câxo, a pâ tutta trasformâ", sembra di stare a "Montéuggio, Bròmi" (Montoggio e la frazione Bromia), "Trâxo" (Traso, fraz. di Bargagli), "Martin d’Òrba" (Martina d’Olba, comune di Urbe), "ed Arquâ" (Arquata Scrivia), poiché si sente parlare solo con la cadenza dei posti di provenienza.
Ma di che parlano? "Cöse dîxe anche a ciù bonn-a? A dîxe mâ da seu padronn-a." La più brava delle servette parla male della sua padrona.
Ed ecco l’ultimo “trallalero”: "Ciassa de Pontexéllo da-a gêxa de Caignan, seunando van a-a prédica ma e serve no ghe van." I rintocchi delle campane di Carignano chiamano la gente alla Messa (la predica), tutti si recano in Chiesa, solo le servette si guardano bene dal seguirli, "...van a ballâ in scî Terapin." vanno a ballare sui Terrapieni (le vecchie mura).
Considerazioni
Abbiamo accennato a “Ri sciaratti che sente Madama Parissoea sciù ra ciaçça de Ponticello” di Steva De Franchi, nobile, cantore della Rivolta del 1746, perché le due opere poetiche hanno in comune il tema e la tecnica usata per la stesura usata dagli autori. Stefano (Steva) De Franchi, accademico d’Arcadia con il nome di Micrilbo Termopilatide, scrisse sei sonetti sulla Rivolta di Portoria del 1746 invitando il pittore Gaetano Gallino a dipingere alcuni quadri. Il Gallino, invece, compose diciannove sonetti, collegati tra loro in una catena. L’opera, conosciuta come “Cadenn-a Zeneise”, comprende anche i sonetti del De Franchi e scritti anonimi, e tutti descrivono gli episodi della rivolta come una fotografia.
Questa poesia o canzone di Carbone fissa la vita della Piazza e permette ai posteri di poter conservare la memoria storica e la cultura popolare. Questo è un buon motivo per incentivare la riscoperta e l’esecuzione di canzoni popolari e toglierle dall’oblio, perché il perdere la memoria storica del glorioso passato, per un popolo, è l’inizio della perdita della propria identità.
Spero con questo mio lavoro di aver fatto rivivere, per un istante, un piccolo mondo sì bello e perduto!
Conclusioni
La canzone richiama in mente altre canzoni su Portoria e Ponticello, come "Barchî" e "Canson da Chéulia" di Cappello, e le più moderne "Picon" o "Comme t'ê bella Zena", ecc. In tutte c’è il ricordo di un Sestiere travolto dal vento della modernità, così chiamano la distruzione di un piccolo universo fatto di edifici, vie e carruggi, piazze e punti singolari, ma soprattutto del tessuto umano presente in esso, che ha impiegato molti secoli per formarsi ed al quale sono bastati pochi anni per distruggerlo, per sempre. Non potrà mai più essere ricostituito, anche ricostruendo fedelmente il reticolo urbano e facendovi ritornare tutti gli abitanti allontanati. Occorreranno dei secoli per formare un nuovo tessuto umano, ma non potrà mai essere come quello perduto.
La memoria del passato è necessaria per la vita della cultura e dell’identità di un popolo, quindi occorre conservare e rendere accessibili a tutti le fonti storiche popolari, cioè le canzoni, i cantari, le ballate, i trallalero, le poesie scritte nella lingua madre. Altrimenti l’avrà vinta chi, con la scusa dell’Unità d’Italia, più correttamente delle Nazioni della Penisola Italia, ha voluto la distruzione delle culture locali, una vera pulizia etnica.
Non mi riferisco agli “Eroi idealisti del Risorgimento”, anch’essi vittime degli avvenimenti, ma a chi ha lucrato su di essi, come i fedelissimi dei Savoia, la Borghesia mercantile, ed i “mitici Eroi”, di cui è meglio tacere. I tempi non sono maturi per una revisione storica, oggi il potere vive ancora sull’onda del Mito del Risorgimento.
Bah! Torniamo alla nostra Piazza. Mi son sempre chiesto il motivo di questa scelta politica sul Sestiere di Portoria e perché, a fine “modernizzazione”, solo per poche nuove vie è stato conservato il vecchio nome, soprattutto, del perché la nuova piazza si chiama Piazza Dante e non Piazza Ponticello. Ho in mente una sola risposta, “la volontà di distruggere la memoria storica”, ma non so se è quella giusta, per cui espongo gli elementi che hanno portato a questa conclusione.
Nel 1746 i Piemontesi con gli Austriaci occuparono Genova, poi furono scacciati dalla rivolta popolare del 5 dicembre a Portoria, innescata da un “batôzo” scagliando la storica pietra. La rivolta coinvolse tutta la popolazione, dimostrando che Genova, malgrado gli acciacchi degli anni, era ancora in grado di risollevarsi e poter tornare alle glorie dei tempi aurei, cosa che vanificava i sogni dei Savoia di conquistare la Città ed il suo Porto. La sconfitta, conseguenza della rivolta, non è stata mai dimenticata dai Savoia ed Austriaci, ma anche dagli Inglesi, ed ha influito sulla decisione del Congresso di Vienna di “cancellare” la Repubblica Marinara di Genova, accontentando i Savoia, che realizzavano il loro sogno secolare di avere il porto, e gli Inglesi, che ottennero, di fatto, il controllo del Mediterraneo. I savoiardi ricordavano bene la rivolta del 1746, soprattutto, il luogo dove è iniziata (Portoria) e l’autore del gesto (i Genovesi o il mito del Balilla). Gli “eroici” bersaglieri di Alfonso La Marmora nell’eseguire il sacco di Genova nel 1849 gridavano “addosso ai Balilla!”. L’idea che ho esposta è nata d’intuito leggendo una cronaca sulla rivolta del 1849. Poi si è rafforzata leggendo che, con la distruzione del Sestiere, sono state rimosse ed accantonate in un museo, quindi occultate alla vista popolare, le catene del porto di Pisa, trofeo-simbolo della grandezza della Repubblica di Genova, altro elemento di convalida alla tesi della volontà di distruzione della memoria storica.
Analizzando il problema, sembra che la scelta di Portoria sia stata la più onerosa per i lavori occorrenti, come lo scavo della galleria Colombo e lo spianamento del Colle di Sant’Andrea.
Completando il racconto sulla vita della piazza, utilizzo la traduzione di una poesia anonima, trovata per caso, la "Casann-a":
“Ricordo ai miei tempi, da giovani, giocavamo a pallone in piazza Ponticello. Poi ci toglievamo la sete al Barchì, la fontana di fronte al locale di Bedin, e ogni tanto compravamo (con un soldo) un panino con la farinata. Sul far della sera, facendo ribalzare con le mani il pallone sui muri, salivamo per i caruggi che portavano a casa. Che bei tempi!! Ora è tutto cambiato, tutto, ma la farinata di Bedin è sempre buona”.
Ricordo, i mæ tempi,
figgioami zugâimo
a-o ballon in ciassa Pontexello.
Poi, se levâvimo a sæ
a-o barchî, a fontann-a
in faccia a-a Bëdin,
e ogni tanto s’accatâimo
(con unn-a palanca)
un panetto co-a fainâ.

In scio fâ da seja
Faxendo buttezzâ co-e moen,
o ballon in te miäge,
montâvimo sciu pe-i caruggi
che portâvan a casa.
“Che bei tempi!!”

Oua l’é tutto cangiòu,
tutto, ma a fainâ
Da-a Bëdin a l’é
de longo bonn-a.

Spero di aver reso un omaggio agli Autori di canzoni popolari, che sono le vere fonti storiche, in quanto è espressione della storia vissuta da chi la subisce (il popolo), al pari dei documenti conservati negli Archivi o degli scritti dei cronisti indipendenti. Spero, ancor di più, di aver accontentato quei “Zeneise Riso Raeo”, di stampo antico, che mi hanno spronato a fare questo lavoro.
Bafurno Salvatore,  
2007  


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